Diritto amministrativo
Situazioni giuridiche soggettive
11 | 03 | 2025
Il dubbio di costituzionalità di un atto legislativo per violazione del principio di eguaglianza
Valerio de Gioia
Con sentenza n. 1985 dell’11 marzo 2025, la quinta sezione del
Consiglio di Stato ha affermato che lo schema logico del sindacato di
eguaglianza-ragionevolezza è triangolare.
Il controllo di una disposizione ipotizzata in violazione dell’art. 3 della Costituzione deve avvenire in relazione ad un elemento assunto come termine di raffronto, per verificare se è ragionevole il medesimo o il diverso trattamento normativo. A tal proposito si richiamano le sentenze della Corte nn. 10/1980 e 89/1996 che chiariscono perfettamente in cosa consista il giudizio triangolare di eguaglianza. Poiché si è eguali rispetto a qualcuno o qualcosa e, reciprocamente, si è diversi da qualcuno o da qualcosa, il giudizio di eguaglianza è necessariamente un giudizio di carattere relazionale. In esso, come afferma in modo efficacissimo la migliore dottrina, sono sempre messe a confronto due res, due oggetti, due situazioni giuridiche. La questione è che la Corte costituzionale esige che quando si solleva un dubbio di costituzionalità di un atto legislativo per violazione del principio di eguaglianza, il ricorrente debba sempre allegare il tertium comparationis. La sua allegazione da parte di chi solleva la questione è condizione necessaria per stabilire se in concreto è stato violato o meno il principio di eguaglianza. Il tertium, però, deve avere alcune caratteristiche essenziali: a) deve consistere in una situazione giuridicamente rilevante; b) deve essere omogeneo rispetto alla situazione oggetto del giudizio della Corte dato che una eguaglianza può essere stabilita solo tra due situazioni che presentano taluni elementi comuni o, meglio, che gli elementi comuni alle due situazioni raffrontate siano rilevanti per stabilire il pari trattamento. La Corte costituzionale ha, tra l’altro, affermato quanto segue: il parametro della eguaglianza, infatti, non esprime la concettualizzazione di una categoria astratta, staticamente elaborata in funzione di un valore immanente dal quale l’ordinamento non può prescindere, ma definisce l’essenza di un giudizio di relazione che, come tale, assume un risalto necessariamente dinamico. L’eguaglianza davanti alla legge, quindi, non determina affatto l’obbligo di rendere immutabilmente omologhi fra loro fatti o rapporti che, sul piano fenomenico, ammettono una gamma di variabili tanto estesa quante sono le imprevedibili situazioni che in concreto possono storicamente ricorrere, ma individua il rapporto che deve funzionalmente correlare la positiva disciplina di quei fatti o rapporti al paradigma dell’armonico trattamento che ai destinatari di tale disciplina deve essere riservato, così da scongiurare l’intrusione di elementi normativi arbitrariamente discriminatori. D’altra parte, essendo qualsiasi disciplina destinata per sua stessa natura ad introdurre regole e, dunque, a operare distinzioni, qualunque normativa positiva finisce per risultare necessariamente destinata ad introdurre nel sistema fattori di differenziazione, sicché, ove a quel parametro fosse annesso il valore di paradigma cristallizzato su base meramente “naturalistica” e dunque statica, ogni norma vi si porrebbe in evidente contrasto proprio perché chiamata a discriminare ciò che è attratto nell’alveo della relativa previsione da ciò che non lo è. Se, dunque, il principio di eguaglianza esprime un giudizio di relazione in virtù del quale a situazioni eguali deve corrispondere l’identica disciplina e, all’inverso, discipline differenziate andranno coniugate a situazioni differenti, ciò equivale a postulare che la disamina della conformità di una norma a quel principio deve svilupparsi secondo un modello dinamico, incentrandosi sul “perché” una determinata disciplina operi, all’interno del tessuto egualitario dell’ordinamento, quella specifica distinzione, e quindi trarne le debite conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo. Il giudizio di eguaglianza, pertanto, in casi come quello sottoposto alla Corte costituzionale con l’ordinanza del giudice rimettente, è in sé un giudizio di ragionevolezza, vale a dire un apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la “causa” normativa che la deve assistere: ove la disciplina positiva si discosti dalla funzione che la stessa è chiamata a svolgere nel sistema e ometta, quindi, di operare il doveroso bilanciamento dei valori che in concreto risultano coinvolti, sarà la stessa “ragione” della norma a venir meno, introducendo una selezione di regime giuridico priva di causa giustificativa e, dunque, fondata su scelte arbitrarie che ineluttabilmente perturbano il canone dell’eguaglianza. Ogni tessuto normativo presenta, quindi, e deve anzi presentare, una “motivazione” obiettivata nel sistema, che si manifesta come entità tipizzante del tutto avulsa dai “motivi”, storicamente contingenti, che possono avere indotto il legislatore a formulare una specifica opzione: se dall’analisi di tale motivazione scaturirà la verifica di una carenza di “causa” o “ragione” della disciplina introdotta, allora e soltanto allora potrà dirsi realizzato un vizio di legittimità costituzionale della norma, proprio perché fondato sulla “irragionevole” e per ciò stesso arbitraria scelta di introdurre un regime che necessariamente finisce per omologare fra loro situazioni diverse o, al contrario, per differenziare il trattamento di situazioni analoghe. Da tutto ciò consegue che il controllo di costituzionalità, dovendosi per un verso saldare al generale principio di conservazione dei valori giuridici e restando comunque circoscritto all’interno dei confini proprî dello scrutinio di legittimità, non può travalicare in apprezzamenti della ragionevolezza che sconfinino nel merito delle opzioni legislative, e ciò specie nelle ipotesi in cui la questione dedotta investa, come nel caso in esame, sistemi normativi complessi, all’interno dei quali la ponderazione dei beni e degli interessi non può certo ritenersi frutto di soluzioni univoche. Non può quindi venire in discorso, agli effetti di un ipotetico contrasto con il canone della eguaglianza, qualsiasi incoerenza, disarmonia o contraddittorietà che una determinata previsione normativa possa, sotto alcuni profili o per talune conseguenze, lasciar trasparire, giacché, ove così fosse, al controllo di legittimità costituzionale verrebbe impropriamente a sovrapporsi una verifica di opportunità, per di più condotta sulla base di un etereo parametro di giustizia ed equità, al cui fondamento sta una composita selezione di valori che non spetta alla Consulta operare. Norma inopportuna e norma illegittima sono pertanto due concetti che non si sovrappongono, dovendosi il sindacato arrestare in presenza di una riscontrata correlazione tra precetto e scopo che consenta di rinvenire, nella “causa” o “ragione” della disciplina, l’espressione di una libera scelta che soltanto il legislatore è abilitato a compiere (così la storica sentenza della Corte Costituzionale n. 89 del 1996).
Riferimenti Normativi: