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Diritto processuale penale

Ordinamento penitenziario

07 | 03 | 2025

Corte Costituzionale: la presunzione di innocenza e la funzione rieducativa della pena in materia di «permessi premio»

Giuseppe Molfese

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 24 del 7 marzo 2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter, comma 5, L. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) che prevede che «[n]ei confronti dei soggetti che durante l’espiazione della pena o delle misure restrittive hanno riportato condanna o sono imputati per delitto doloso commesso durante l’espiazione della pena o l’esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale, la concessione è ammessa soltanto decorsi due anni dalla commissione del fatto».

Va premesso che la giurisprudenza costituzionale successiva al 1997 ha confermato la tendenziale illegittimità costituzionale degli automatismi in materia di revoca o preclusione dei benefici e delle misure alternative, conseguenti alla commissione di nuovi reati da parte del condannato; insistendo, per converso, sulla necessità di una puntuale valutazione da parte del giudice della sorveglianza circa il significato concreto del fatto rispetto al percorso trattamentale intrapreso dal condannato e al giudizio relativo alla sua eventuale persistente pericolosità sociale. In quest’ottica, la sentenza n. 189 del 2010 ha, ad esempio, giudicato inammissibili questioni di legittimità costituzionale relative alle preclusioni all’accesso a benefici penitenziari stabilite dall’art. 58-quater, comma 1, ordin. penit. a carico di coloro che siano stati condannati per evasione, ritenendo che il giudice rimettente non avesse esperito un’interpretazione conforme alla Costituzione della stessa. In base a tale interpretazione, il giudice avrebbe comunque dovuto «valutare, caso per caso, con motivazione approfondita e rigorosa, la personalità e le condotte concrete del condannato responsabile del reato di cui all’art. 385 c.p.» (punto 3 del Considerato in diritto), al fine di accertare o escludere la sua effettiva e perdurante pericolosità sociale, nonché i suoi progressi trattamentali. Più di recente, e in via generale, la Corte Costituzionale ha enunciato il «criterio “costituzionalmente vincolante”» che «esclude “rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata e caso per caso” nella materia dei benefici penitenziari (sentenza n. 436 del 1999), […] giacché ove non fosse consentito il ricorso a criteri individualizzanti “l’opzione repressiva fini[rebbe] per relegare nell’ombra il profilo rieducativo” (sentenza n. 257 del 2006)» (sentenza n. 149 del 2018, punto 7 del Considerato in diritto; nonché, nello stesso senso, sentenze n. 56 del 2021, punto 2.4. del Considerato in diritto, e n. 253 del 2019, punto 8.2. del Considerato in diritto). Infine, allorché la Consulta si è trovata a vagliare la legittimità costituzionale della disciplina di cui all’art. 58-quater, commi 1, 2 e 3, ordin. penit., nella parte in cui dispone il divieto di concessione di taluni benefici per un periodo di tre anni dal momento della revoca di una misura alternativa, ha ritenuto che tale preclusione – pur definita «severa e opinabile dal punto di vista delle scelte di politica penitenziaria» – superasse il vaglio di legittimità costituzionale soltanto sulla base della considerazione che il tribunale di sorveglianza dispone normalmente la revoca nei soli casi più gravi di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura, e in particolare quando sia dimostrata «la necessità di una regressione del percorso rieducativo e di un almeno temporaneo ripristino del regime di detenzione, in particolare in funzione di contenimento di un concreto rischio di recidiva evidenziatosi in capo al condannato» (sentenza n. 173 del 2021, punto 3.3.3. del Considerato in diritto). Nel compiere tali valutazioni, ha proseguito la Consulta, il tribunale «non potrà non tenere conto anche delle conseguenze particolarmente gravose associate alla revoca, e in particolare della preclusione – nell’arco di un intero triennio – relativa alla concessione di ogni altra misura alternativa o beneficio penitenziario, diversi dalla liberazione anticipata» (ancora, punto 3.3.3. del Considerato in diritto); il che assicura, almeno nella decisione che determina il successivo effetto preclusivo, un margine significativo di discrezionalità in capo al giudice della sorveglianza, al di fuori di ogni automatismo incompatibile con l’art. 27, comma 3, Cost. L’art. 30-ter, comma 5, ordin. penit. azzera, invece, ogni margine valutativo in capo al magistrato di sorveglianza sul percorso trattamentale intrapreso dal detenuto e sulla sua residua pericolosità sociale, ogni qualvolta egli risulti essere stato condannato (o sia addirittura semplicemente imputato) per qualsiasi delitto doloso commesso durante l’esecuzione della pena o di una misura comunque restrittiva della libertà personale. E ciò per due anni dalla commissione del fatto: un lasso di tempo tutt’altro che trascurabile, per chi trascorre la propria vita in un carcere. Il venir meno dell’automatismo previsto dalla disposizione all’esame non esclude, naturalmente, che il magistrato di sorveglianza possa fondare la propria valutazione anche su fatti emergenti da informative di polizia o rapporti delle autorità penitenziarie, suscettibili di integrare ipotesi di reato. In materia di permessi premio, l’art. 30-ter, comma 1, ordin. penit. conferisce al magistrato di sorveglianza il compito di accertare, da un lato, la «regolare condotta» del condannato – a sua volta dimostrata, in base al comma 8, dal «costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali» –; e, dall’altro, l’assenza di pericolosità sociale del condannato stesso. Nel contesto di tali accertamenti, il magistrato di sorveglianza dovrà, dunque, necessariamente tener conto anche di eventuali notitiae criminis relative a condotte addebitate a chi richieda il permesso premio (come il tentativo di introdurre sostanze stupefacenti in carcere al rientro da un precedente permesso, per il quale il richiedente nel procedimento a quo risulta essere imputato). E ciò indipendentemente dalla circostanza se tali condotte integrino in concreto tutti gli elementi oggettivi e soggettivi di un reato, e siano in effetti suscettibili di dar luogo a una responsabilità penale del richiedente: profilo, questo, sul quale il magistrato di sorveglianza non può né deve esprimersi, ben potendo egli fondare il diniego di un beneficio anche su fatti rispetto ai quali il parallelo giudizio penale di cognizione si sia concluso con una pronuncia di proscioglimento per assenza di querela (Cass. pen., sez. I, 9 settembre-17 novembre 2021, n. 41796), o addirittura di assoluzione perché i fatti – pur ritenuti sussistenti nella loro materialità – non integravano una fattispecie di reato (Cass. pen., sez. I, 29 febbraio-9 maggio 2024, n. 18351). Essenziale è, però, che il magistrato di sorveglianza possa valutare liberamente le evidenze relative alle condotte in questione, senza essere vincolato dalle valutazioni su di esse compiute da un pubblico ministero, né a quelle contenute in una decisione giudiziaria non ancora definitiva. Ed essenziale è altresì che, pur in presenza di una condanna definitiva del richiedente, il magistrato di sorveglianza possa – altrettanto liberamente – valutare il concreto rilievo del fatto, giudizialmente accertato in altra sede, ai fini della specifica decisione a lui affidata, tenendo conto dei contributi provenienti dalla difesa.

Riferimenti Normativi:

  • Art. 27, cost.
  • Art. 30 ter, l. 26 luglio 1975, n. 354
  • Art. 27, cost.
  • Art. 30 ter, l. 26 luglio 1975, n. 354
  • Art. 27, cost.
  • Art. 30 ter, l. 26 luglio 1975, n. 354
  • Art. 27, cost.
  • Art. 30 ter, l. 26 luglio 1975, n. 354