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Diritto penale

Reati in generale

30 | 01 | 2025

Ai fini della imputabilità, acquistano rilievo solo le turbe della personalità tali da determinare, in concreto, una situazione psichica incolpevolmente incontrollabile da parte del soggetto

Valerio de Gioia

Con sentenza n. 3868 del 12 settembre 2024-30 gennaio 2025, la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha affrontato la questione della rilevanza, ai fini della imputabilità, dei disturbi della personalità.

La sentenza "Raso" ha affermato che tali disturbi possono incidere sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, quando siano di intensità e gravità tali da condurre a questa conclusione e vi sia un nesso causale con la specifica condotta, nel senso che il fatto sia stato causalmente determinato dal disturbo di personalità. Va, peraltro, ricordato che, pur potendosi attribuire - secondo l'insegnamento offerto dalle Sezioni Unite (Cass. pen., sez. un., 25 gennaio 2005, n. 9163) - rilievo anche a disturbi della personalità che abbiano avuto concreta incidenza sull'atto delittuoso, ciò non comporta l'indiscriminato rilievo di qualsiasi condizione di alterazione psichica. In effetti, la citata decisione delle Sezioni Unite, attribuisce rilevanza, nel percorso di verifica della capacità di intendere e di volere al momento del fatto, all'avvenuta emersione di precisi indici rivelatori, non di un «qualsiasi» disturbo di personalità ma esclusivamente di condizioni definibili in termini di particolare «serietà» del disturbo medesimo, che deve essere caratterizzato da intensità e gravità. Infatti, secondo i giudici del Massimo consesso, deve trattarsi di un disturbo idoneo a determinare una situazione di assetto psichico, incontrollabile ed ingestibile che, incolpevolmente, rende l'agente incapace di esercitare li dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente e liberamente autodeterminarsi. Viene specificato che, per converso, non possono avere rilievo, a fini dell'imputabilità, altre anomalie caratteriali, disarmonie della personalità, alterazioni di tipo caratteriale, deviazioni del carattere e del sentimento, quelle legate all'indole del soggetto che, pur attenendo alla sfera del processo psichico di determinazione, non si rivestono, tuttavia, delle connotazioni testé indicate e non attengono, quindi, a quel rilievo di incisività sulla capacità di autodeterminazione dell'agente, nei termini e nella misura voluta dalla norma. Sicché, per la giurisprudenza di legittimità delle Sezioni Unite, acquistano rilievo solo le turbe della personalità tali da determinare, in concreto, una situazione psichica incolpevolmente incontrollabile da parte del soggetto, il quale non può gestire le proprie azioni e non ne percepisce, in alcun modo, il disvalore. Si tratta di disturbi della personalità che rientrano nella più ampia categoria delle psicopatie, ben distinta, com'è noto, da quella delle psicosi, queste ultime considerate, anche dalla più risalente giurisprudenza della Suprema Corte (cfr., Cass. pen., sez. VI, n. 24614 del 2003; Cass. pen., sez. I, n. 659 del 1997), vere e proprie malattie mentali, comportanti una perdita dei confini dell'Io. Per la Suprema Corte a Sezioni Unite, li disturbo della personalità, invece, si caratterizza per essere "modello costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente dalle aspettative di cultura dell'individuo", precisando che "i tratti di personalità vengono diagnosticati come Disturbo della Personalità solo quando sono inflessibili, non adattivi, persistenti, e causano una compromissione sociale significativa o sofferenza soggettiva". In questo stesso senso, si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità più recente (tra le altre, Cass. pen., sez. I, 16 aprile 2019, n. 35842) sostenendo che, in tema di imputabilità, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, possono rientrare nel concetto di "infermità" anche i disturbi della personalità o, comunque, tutte quelle anomalie psichiche, non inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere, concretamente, sulla capacità di intendere e di volere, escludendola o facendola scemare grandemente e sussista un nesso eziologico tra disturbo mentale e condotta criminosa, mentre nessun rilievo può essere riconosciuto ad altre anomalie caratteriali o alterazioni o disarmonie della personalità, prive dei caratteri predetti, nonché agli stati emotivi e passionali che non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di infermità. Inoltre, si osserva, che la giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sez. V, 8 marzo 2023, n. 22659) ha riscontrato che, in tema di imputabilità, l'assenza della capacità di volere può assumere rilevanza autonoma e decisiva, valorizzabile agli effetti del giudizio ex artt. 85 e 88 c.p., anche in presenza di accertata capacità di intendere (e di comprendere il disvalore sociale della azione delittuosa). Ciò, tuttavia, solo ove sussistano due essenziali e concorrenti condizioni: a) gli impulsi all'azione che l'agente percepisce e riconosce come riprovevole (in quanto dotato di capacità di intendere) siano di tale ampiezza e consistenza tale da vanificare la capacità di apprezzarne le conseguenze; b) ricorra un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale li fatto-reato sia ritenuto causalmente determinato da quello specifico disturbo mentale che deve, appunto, essere ritenuto idoneo ad alterare non l'intendere, ma il solo volere dell'autore della condotta illecita. Se ne è tratta la conseguenza, in giurisprudenza, secondo cui l'esistenza di un impulso o di uno stimolo all'azione illecita, non può essere, di per sé, considerata come causa, da sola, sufficiente a determinare un'azione incoerente con il sistema di valori di colui che la compia, essendo, invece, onere dell'interessato dimostrare il carattere cogente nel singolo caso dell'impulso stesso. Ancora, si osserva che la giurisprudenza di legittimità ha, da tempo, affermato che, allorché le conclusioni degli esperti che hanno ricevuto incarico di eseguire perizia psichiatrica sull'imputato (nel caso esaminato con il precedente citato, in differenti gradi del giudizio) siano insanabilmente divergenti, li controllo di legittimità sulla motivazione del provvedimento concernente la capacità di intendere o di volere deve necessariamente riguardare i criteri che hanno determinato la scelta tra le opposte tesi scientifiche. Il che equivale a verificare se il giudice del merito abbia dato congrua ragione della scelta e si sia soffermato sulle tesi che ha creduto di non dovere seguire e se, nell'effettuare tale operazione, abbia tenuto costantemente presenti le altre risultanze processuali e abbia, con queste, confrontato le tesi recepite (Cass. pen., sez. un., 24 maggio 2000, n. 8076; Cass. pen., sez. V, 3 dicembre 2013, n. 686; conf. nel senso che, in tema di omicidio imputabile a colpa medica, non e censurabile in sede di legittimità la decisione con cui il giudice di merito, nel contrasto tra opposte tesi scientifiche, all'esito di un accurato e completo esame delle diverse posizioni, ne privilegi una, purché dia congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di non dover seguire: Cass. pen., sez. IV, 10 marzo 2016, n. 15493). Più in generale, si è osservato (Cass. pen., sez. V, 14 ottobre 2022, n. 43845) in tema di prova, che costituisce giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità, la scelta operata dal giudice, tra le diverse tesi prospettate dal perito e dai consulenti delle parti, di quella che ritiene maggiormente  condivisibile, purché la sentenza dia conto, con motivazione accurata e approfondita, delle ragioni di tale scelta, del contenuto dell'opinione disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti (conf. Cass. pen., sez. IV, 6 novembre 2008, n. 45126). Infatti, circa l'onere e il contenuto della motivazione ni sede di merito, si è affermato (Cass. pen., sez. IV, 11 dicembre 2020, n. 37785) il condivisibile indirizzo secondo il quale il giudice, qualora si discosti dalle conclusioni del perito, è tenuto a motivare il proprio convincimento con criteri che rispondano ai principi scientifici oltreché logici, e in particolare, sviluppandosi l'iter diagnostico dei periti attraverso due operazioni successive, connesse ed interdipendenti in relazione al risultato finale, ovverosia la percezione dei dati storici e li successivo giudizio diagnostico fondato sulla prima, è su tale percezione che li giudice deve portare la sua indagine, discostandosi dalle conclusioni raggiunte quando queste si basino su dati fattuali dimostratisi erronei che, viziando l'iter logico dei periti, rende inattendibili le loro conclusioni. 

Riferimenti Normativi:

  • Art. 85, c.p.
  • Art. 88, c.p.