Diritto penale
Delitti
31 | 01 | 2025
Il delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali non è materialmente configurabile in assenza dell’effettivo esborso delle relative somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione
Valerio de Gioia
Con sentenza n. 4200 del 18 novembre 2024-31 gennaio 2025, la terza sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che il delitto di cui all’art. 2, comma 1-bis, D.L. n. 463 del 1983, convertito con modificazioni dalla L. n. 638 del 1983, ha natura omissiva (consistente in un non facere) e ha ad oggetto le ritenute operate a titolo previdenziale assistenziale sulle retribuzioni effettivamente erogate ai lavoratori dipendenti. Il reato non è materialmente configurabile in assenza dell’effettivo esborso delle relative somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione, posto che il riferimento letterale alle "ritenute operate" sulla retribuzione deve essere interpretato nel senso che non può essere operata una ritenuta senza il pagamento della somma dovuta al creditore (Cass. pen., sez. un., 28 maggio 2003, n. 27641; Cass. pen., sez. III, 19 settembre 2003, n. 42378; Cass. pen., sez. III, 30 maggio 2003, n. 35498). Come successivamente ribadito dalle Sezioni Unite (Cass. pen., sez. un., 18 gennaio 2018, n. 10424), «l’intenzione del legislatore è sostanzialmente quella di reprimere, non tanto il fatto omissivo del mancato versamento dei contributi, quanto, piuttosto, il più grave fatto commissivo dell'indebita appropriazione, da parte del datore di lavoro, di somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti, con la conseguenza che l'obbligo di versare le ritenute nasce solo al momento della effettiva corresponsione della retribuzione, sulla quale le ritenute stesse debbono essere operate, non rilevando, peraltro, le vicende finanziarie dell'azienda (Cass. pen., sez. III, 14 aprile 2015, n. 26712; Cass. pen., sez. III, 21 novembre 2013, n. 19574; Cass. pen., sez. III, 14 giugno 2011, n. 29616; Cass. pen., sez. III, 25 settembre 2007, n. 38269)»
Ciò nondimeno, se il debito previdenziale sorge a seguito della corresponsione delle retribuzioni, al termine di ogni mensilità, è altrettanto vero che la condotta del mancato versamento assume penale rilevanza solo con l’inutile spirare del termine di scadenza indicato dalla legge (il giorno 16 del mese successivo a quello di erogazione delle retribuzioni) e solo quando l’entità del debito previdenziale non onorato supera, nell’anno solare, dal 16 gennaio (per le retribuzioni del precedente mese dicembre) al 16 dicembre (per le retribuzioni corrisposte nel mese di novembre) (Cass. pen., sez. un., 10424/18 cit.), la soglia di 10.000 euro (nel senso che il delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, di cui all'art. 2, comma 1-bis, D.L. 12 settembre 1983, n. 483, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 novembre 1983, n. 638, modificato dall'art. 3, comma 6, D.L.vo 15 gennaio 2016, n. 8, che ha introdotto la soglia di punibilità di euro diecimila annui, si configura come fattispecie connotata da progressione criminosa, nel cui ambito, superato il limite di legge, le ulteriori omissioni consumate nel corso del medesimo anno si atteggiano a momenti esecutivi di un reato unitario a consumazione prolungata, la cui definitiva cessazione coincide con la scadenza del termine previsto per il versamento dell'ultima mensilità, ossia con la data del 16 gennaio dell'anno successivo, cfr. Cass. pen., sez. III, 9 gennaio 2024, n. 9196; Cass. pen., sez. III, 20 ottobre 2016, n. 649; Cass. pen., sez. III, 11 maggio 2016, n. 37232). Non v’è dubbio, di conseguenza, che l’erogazione delle retribuzioni al lordo degli oneri contributivi di spettanza del lavoratore esclude la sussistenza del reato e che gravi sul Pubblico ministero l’onere di provare la materiale corresponsione delle retribuzioni al netto delle ritenute effettivamente operate a titolo previdenziale; ma questa considerazione, di natura processual-probatoria, non trasforma il reato da omissivo a commissivo. La quota contributiva di spettanza del lavoratore, infatti, poiché a questi non corrisposta (in quanto, appunto, “ritenuta”), resta nella materiale disponibilità del datore di lavoro dal cui patrimonio non esce e con il quale si confonde; tale quota costituisce solo l’unità di misura dell’obbligo contributivo che deve essere adempiuto entro il giorno 16 del mese successivo a quello dell’erogazione della retribuzione. Altrimenti ragionando il datore di lavoro non dovrebbe rispondere di alcun reato, nemmeno del diverso reato di appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p., escluso dalla Suprema Corte in situazioni non dissimili (Cass. pen., sez. un., 27 ottobre 2004, n. 1327). Come già spiegato dalla Corte di cassazione, «la somma "trattenuta" o "ritenuta" rimane sempre nella esclusiva disponibilità del "possessore", non soltanto perché non è mai materialmente versata al lavoratore, ma soprattutto in quanto mai potrebbe esserlo, avendo il dipendente soltanto il diritto di percepire la retribuzione al netto delle trattenute effettuate alla fonte dal datore di lavoro. Le "trattenute", quindi, si risolvono a ben vedere in una operazione meramente contabile diretta a determinare l'importo della somma che il datore di lavoro è obbligato a versare, in base ad una norma di legge o avente forza di legge, alla scadenza pattuita in conseguenza della corresponsione della retribuzione» (Cass. pen., sez. un., n. 1327 del 2004, cit.). Il titolare del rapporto contributivo, infatti, non è il lavoratore (cui la prestazione previdenziale-assistenziale è di norma sempre dovuta; cfr. art. 2116 c.c.), ma il datore di lavoro, che è responsabile del versamento del contributo anche per la parte a carico del prestatore, «salvo il diritto di rivalsa» (artt. 2115, comma 2, c.c. e 19, L. 4 aprile 1952, n. 218). Attraverso la “trattenuta” il datore di lavoro aziona e rende concreto il suo diritto di rivalsa mediante l’ideale costituzione della provvista finanziaria necessaria a far fronte – pro-quota lavoratore dipendente - alla sua obbligazione nei confronti dell’INPS, stabilita, in percentuale, sull'ammontare della retribuzione lorda del lavoratore, e determinata in base alle vigenti disposizioni ai fini del calcolo dei contributi dovuti per gli assegni familiari (artt. 17, comma 1, e 19, comma 2, L. 218 del 1952, cit.). Ma ciò non toglie che unico obbligato nei confronti degli enti previdenziali assistenziali sia il datore di lavoro che risponde con il suo patrimonio, anche per la quota parte del lavoratore. È dunque errato sostenere che il reato presuppone il trattenimento “fisico” della quota contributiva a carico del lavoratore dipendente perché, in realtà, la somma a questi non corrisposta non esce mai dal patrimonio del datore di lavoro.