Diritto penale
Delitti
29 | 10 | 2024
Commercio di sostanze dopanti e successione di leggi penali nel tempo
Valerio de Gioia
Con
sentenza n. 39716 del 27 giugno-29 ottobre 2024, la prima sezione penale della Corte
di Cassazione è intervenuta in tema di commercio di sostanze dopanti.
Com'è noto, l'art. 9, L. n. 376 del 2000 è stato abrogato dall'art. 7, comma 1, lett. n), D.L.vo 1° marzo 2018, n. 21 e, parallelamente, in applicazione del «principio della riserva di codice», enunciato nell'art. 3-bis c.p., l'art. 2, comma 1, lett. d) D.L.vo n. 21 del 2018 ha trasferito nel codice penale le disposizioni già contenute nell'indicato art. 7. Il comma 7 dell'art. 9 appena menzionato puniva «Chiunque commercia i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi di cui all'articolo 2, comma 1, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente, destinati alla utilizzazione sul paziente», con la pena della reclusione da due a sei anni e con la multa da lire 10 milioni a lire 150 milioni. L'art. 586-bis c.p., al comma 7, al momento della sua introduzione, sanzionava il commercio di farmaci e di sostanze le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi indicate dalla legge, idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell'organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero idonei a modificare i risultati dei controlli sull'uso di tali farmaci o sostanze, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente destinati alla utilizzazione sul paziente, con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 5.164,00 a euro 77.468,00. E, tuttavia, a Corte costituzionale, con sentenza n. 105 del 22 aprile 2022, ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 586-bis, comma 7, c.p., limitatamente alla previsione del dolo specifico del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti». Segnatamente, la Corte costituzionale ha evidenziato che l'inserimento della nuova disposizione nel codice penale doveva tradursi - secondo il criterio di delega - in un'operazione di mera trasposizione nel codice penale delle figure criminose già esistenti. Al contrario, il legislatore delegato ha riprodotto nel comma 7 dell'art. 586-bis c.p. la previsione della stessa finalità - e quindi del medesimo dolo specifico - presente nel comma 1 (oltre che nel 2), così riducendo l'ampiezza della fattispecie penale del commercio di sostanze dopanti alla sola ipotesi in cui il suo autore persegua il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», al pari di chi procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l'utilizzo di sostanze dopanti. Tale limitazione - conforme a legge quanto alle condotte del primo (e del secondo) comma dell'art. 586-bis c.p.n. perché già presente nei corrispondenti primi due commi dell'art. 9 della legge n. 376 del 2000 - secondo la Corte costituzionale doveva ritenersi in contrasto con il criterio di delega quanto alla condotta di commercio di sostanze dopanti di cui al comma 7 della disposizione codicistica, perché non presente nel comma 7 dell'art. 9. Conclusivamente sul punto, in virtù della pronuncia della Corte costituzionale, per la configurabilità delle condotte di commercio vietate dall'art. 586-bis c.p. non è, dunque, richiesto il dolo specifico. Né, osserva la Suprema Corte, l'inciso «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», sebbene dichiarato costituzionalmente illegittimo, potrebbe mai ritenersi applicabile ai fatti pregressi, quale disposizione più favorevole. Pertinente si ritiene, a questo proposito, il richiamo contenuto nella stessa sentenza della Corte costituzionale n. 105 del 2022 alla sentenza dello stesso Giudice delle leggi n. 394 del 2006, laddove ha precisato che «Quanto agli effetti sui singoli imputati dei giudizi penali principali, le cui condotte sono precedenti all'entrata in vigore della disposizione dichiarata costituzionalmente illegittima, competerà ai giudici rimettenti valutare le conseguenze applicative che potranno derivare dalla pronuncia di accoglimento, tenendo conto della costante giurisprudenza della Suprema Corte (ex plurimis, sentenza n. 394 del 2006)». A sua volta, la Corte costituzionale nella sentenza n. 394 del 2006, sebbene su altro tema (la declaratoria d'illegittimità costituzionale di disposizioni penali di favore in materia di reati elettorali), per quanto qui d'interesse, ha: i) osservato che per i fatti commessi in epoca precedente alla formale entrata in vigore di una disposizione penale di favore, non viene in rilievo il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, bensì «il distinto principio di retroattività della norma penale più mite»; ii) rappresentato che il principio di retroattività della norma penale più mite trova il suo fondamento nel principio di uguaglianza, precisando che «Il collegamento del principio della retroattività in mitius al principio di eguaglianza ne segna, peraltro, anche il limite: nel senso che, a differenza del principio della irretroattività della norma penale sfavorevole – assolutamente inderogabile – detto principio deve ritenersi suscettibile di deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli (sentenze n. 74 del 1980 e n. 6 del 1978; ordinanza n. 330 del 1995)»; iii) precisato che «è giocoforza ritenere che il principio di retroattività della norma penale più favorevole in tanto è destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di per sé, costituzionalmente legittima. Il nuovo apprezzamento del disvalore del fatto, successivamente operato dal legislatore, può giustificare – in chiave di tutela del principio di eguaglianza – l'estensione a ritroso del trattamento più favorevole, a chi ha commesso il fatto violando scientemente la norma penale più severa, solo a condizione che quella nuova valutazione non contrasti essa stessa con i precetti della Costituzione. La lex mitior deve risultare, in altre parole, validamente emanata: non soltanto sul piano formale della regolarità del procedimento dell'atto legislativo che l'ha introdotta e, in generale, della disciplina delle fonti, ma anche sul piano sostanziale del rispetto dei valori espressi dalle norme costituzionali. Altrimenti, non v'è ragione per derogare alla regola sancita dai citati art. 136, comma 1, Cost. e 30, comma 3, della L. n. 87 del 1953, non potendosi ammettere che una norma costituzionalmente illegittima – rimasta in vigore, in ipotesi, anche per un solo giorno – determini, paradossalmente, l'impunità o l'abbattimento della risposta punitiva, non soltanto per i fatti commessi quel giorno, ma con riferimento a tutti i fatti pregressi, posti in essere nel vigore dell'incriminazione o dell'incriminazione più severa». In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità: costituisce, invero, affermazione costante quella per cui la norma dichiarata incostituzionale, ove più favorevole, può continuare a essere applicata, per il principio del favor rei, soltanto ai fatti commessi sotto la sua apparente vigenza, ma non anche ai fatti che siano stati commessi nell'operatività della normativa precedente, dovendo escludersi che una norma costituzionalmente illegittima possa determinare un trattamento più favorevole anche con riferimento a fatti pregressi, posti in essere nel vigore della normativa più severa.
Riferimenti Normativi: