Diritto amministrativo
Edilizia e Urbanistica
30 | 07 | 2024
La verifica dell’interesse culturale di un bene
Valerio de Gioia
Con sentenza n. 6817 del 30 luglio 2024, la sesta sezione del Consiglio di Stato ha affermato che la verifica dell’interesse culturale di un bene è segnata dal costante rapporto tra dimensione giuridica e quella extragiuridica afferente allo specifico sapere di cui tale valutazione è intrisa. Infatti, la stessa nozione di bene culturale è un concetto aperto, in cui contenuto viene dato dalle elaborazioni proprie di altri rami del sapere; si tratta - per mutuare l’immagine di un chiaro Autore - di una nozione liminale, ossia di una “nozione a cui la normativa giuridica non dà un proprio contenuto, una propria definizione per altri tratti giuridicamente conchiusi, bensì opera mediante rinvio a discipline non giuridiche”. Inoltre, il riferimento alle acquisizioni di questi diversi campi del sapere non è, tra l’altro, fisso ma mobile. In sostanza, il “laboratorio” del sapere che definisce il carattere culturale del bene non può ritenersi ancorato ad un determinato periodo storico ma, al contrario, si nutre delle progressive acquisizioni ed elaborazioni che tale sapere esprimono. In materie come quella in esame e nella valutazione tecnica dell’Amministrazione, non può, infatti, aver spazio una “pietrificazione” delle nozioni (evocando, sul punto, la nota Versteinerungstheorie, patrocinata, in passato anche dalla Corte Costituzionale tedesca; cfr.: Verfassungsgerichthof, sentenza del 29 settembre 1995, G50/1995); né ciò comporta, per converso, l’adesione a metodi fondati su letture eccessivamente evolutive e ancorate a clausole nettamente aperte che possono terminare per consegnare la valutazione discrezionale a meri arbitri del giudizio. Al contrario, la “mobilità” del sapere tecnico sfugge a tale dicotomia e, del resto, non è che la conseguenza di una visione sistematica dell’ordinamento, inteso come un complesso composito del quale fanno parte non solo le regole propriamente giuridiche ma anche le altre scienze che integrano tale ordinamento mediante, quindi, le elaborazioni che tali scienze progressivamente realizzano e che, comunque, devono essere verificabili (nei limiti che si esporranno infra) anche in ambito giurisdizionale. Si tratta, altresì, di un sapere che attiene, come notato dalla dottrina, al “Verstehen”, alla comprensione, e non all’ “Erklaren”, e, cioè, alla mera spiegazione che è tipica di una scienza descrittiva o empirico-analitica. Un sapere che esprime giudizi la cui peculiarità è quella di essere espressione della differente attitudine delle regole delle scienze umane, diverse da quelle delle scienze applicate. Infatti, il sapere in questione non si ascrive al campo (per utilizzare una terminologia pur non unanimemente condivisa) delle c.d. “hard sciences” (dai dati sperimentali, oggettivamente quantificabili, controllabili e ripetibili), ma afferisce, al contrario, alle scienze non esatte, nelle quali i risultati delle valutazioni non possono ritenersi conseguenti e vincolati ma sono intrinsecamente opinabili, per l’assenza di certezze oggettive e di sicurezze anticipate. Non è, infatti, predicabile alcuna possibilità di oggettiva verifica di un giudizio che non ha come riferimento un dato quantificabile e riferibile ma opera, al contrario, attraverso valutazioni semiotiche delle opere e dei contesti, letture denotative, temporali e connotative dell’oggetto del proprio esame, percezioni ed elaborazioni concettuali non oggettivamente replicabili. Queste peculiarità epistemologiche differenziano il sapere in parola anche dalla scienza giuridica, spiegandosi, in tal modo, le ragioni per le quali per un’effettiva e penetrante opera di tutela occorre affidarsi proprio alle valutazioni che da tali scienze derivano. Lo confermano, ad esempio, i limiti – diffusamente esposti dalla dottrina inglese – sull’identificazione del bene culturale o paesaggistico mediante un atto normativo (cfr., per seguire il percorso esemplificativo intrapreso, il “National Scenic Areas” del 1980 o il “National Parks and access to countryside” del 1948, entrambi relativi a beni paesaggistici), che è, generalmente, espressione di una valutazione “politica” o di mera opportunità e non “tecnica”, e, come tale, rischia di risultare sfornita della concettualizzazione propria di quel sapere. Per tale ragione solo la dimensione tecnica della tutela invera il principio fondamentale dell'art. 9 della Costituzione e consente una salvaguardia che prescinda dal cedimento per opportunità rispetto ad altri interessi. Il corretto esercizio della valutazione tecnica nella cura del patrimonio culturale è, quindi, essenziale per concretare il precetto dell’art. 9, comma 2, della Costituzione; realizza l'indefettibile funzione pubblica richiesta da questa eredità collettiva (il “patrimonio”) e ne assicura la rispondenza al suo “valore primario e assoluto”. L’identificazione “giuridica” di un bene culturale necessita, quindi, delle elaborazioni dello specifico sapere attraverso il quale si apprezza la valenza culturale dell’opera. Una constatazione che, in quanto derivante dallo stesso sistema normativo, vincola lo stesso Giudice che tale sistema è chiamato ad applicare e che, quindi, non può che tener conto dei tratti caratteristici di quel sapere. Constatazione che, lungi dal tradursi nell’impossibilità di operare controlli su valutazioni tecnico-discrezionali, disegna proprio i contorni di tali controlli, i quali dovranno, in sostanza, verificare la rispondenza di una determinata valutazione ai criteri e alle regole che quel sapere esprime. In sostanza, se la stessa norma di riferimento risulta integrata dal sapere tecnico, un controllo giurisdizionale effettivo e reale non può che investire anche la verifica della corretta declinazione di quel sapere nella vicenda contenziosa, tenendo conto, altresì, delle peculiarità epistemologiche di questo sapere, ivi compresa l’opinabilità intrinseca delle stesse. Ovviamente, tale intrinseca opinabilità delle valutazioni non può condurre a negare, in ultima istanza, il tecnicismo delle stesse, finendo, in tal modo, per trasformare la valutazione tecnica in valutazione di opportunità che, come esposto, è cosa diversa dal giudizio tecnico. Pertanto, da un lato, la pertinenza ai principi del sapere tecnico nella ricognizione e nella valutazione dell’opera non può essere surrogata da valutazioni sostanzialmente espressione di mera opportunità; dall’altro, non può nemmeno ritenersi che la discutibilità di un giudizio (che, come visto, è conseguenza necessaria dell’opinabilità intrinseca a questo sapere) sia ex se indice di distorsione nell’esercizio del potere. Una constatazione che si traduce, ex aliis, nella necessità di verificare il complessivo giudizio espresso; infatti, per infirmare la validità delle conclusioni raggiunte, non è sufficiente incentrarsi solo su alcuni parametri del carattere di bene del patrimonio culturale, essendo necessario, al contrario, che “la sommatoria delle lacune individuate risulti di tale pregnanza da compromettere nel suo complesso l'attendibilità del giudizio espresso dall'organo competente” (Cons. Stato, sez. VI, 30 giugno 2011, n. 3894; Cons. Stato, sez. VI, 13 settembre 2012, n. 4872).
La naturale opinabilità è, quindi, tratto necessario di questo sapere del quale il controllo giurisdizionale deve, comunque, tener conto non potendo pretendere né una verificabilità oggettiva tipica delle scienze esatte, né, all’opposto, una sostanziale rinuncia ad un controllo effettivo, imposto dalle previsioni di cui agli artt. 24 e 113 della Costituzione. Tale constatazione può, ulteriormente, svilupparsi notando come apprezzare il sapere delle scienze umane secondo metodologie tipiche delle scienze della natura e della tecnica si tradurrebbe nell’esporre il sapere ad un autentico dilemma epistemologico: quello di riuscire a giungere a risultati rilevanti solo assumendo uno statuto scientifico “debole” o, per converso, a risultati di scarso rilievo, assumendo uno statuto scientifico “forte”. Risulta, pertanto, persino logico (onde non denegare lo stesso valore di tale sapere) accettarne la naturale opinabilità e non pretendere di misurarne la pratica applicazione con criteri e giudizi di falsificazione non proprio dello stesso. Allo stesso tempo, è necessario individuare strumenti di controllo adeguati alle caratteristiche epistemologiche di questo sapere, fatto – per mutare l’ossimorica espressione di un noto storico italiano – di un “rigore elastico”, non misurabile mediante dati quantitativi ma, comunque, verificabile utilizzando strumenti rigorosi, pur nella loro necessaria duttilità. Tali strumenti si estraggono dalla stessa materia di cui è fatto tale sapere, consentendo, quindi, di fissare un limite oltre il quale la valutazione tecnica non risulterà più “accettabile” superando la logica di ogni plausibilità tecnica. Valutazioni tecniche come quelle in esame sono, infatti, essenzialmente incentrate su indici di congruità, legami e relazioni tra opere e contesti artistici o culturali, comprensioni filologiche delle opere, raffronti tra beni e vicende storiche e artistiche. Di questa stessa materia elastica e relazionale sono fatti gli strumenti di controllo che si individuano nella congruenza, proporzionalità, adeguatezza e ragionevolezza delle connessioni e delle valutazioni espresse. Lo conferma anche l’esame etimologico dei termini, considerato che ragionevolezza deriva da “ratio”, e, cioè, rapporto, misura, mentre congruenza da cum gruere, incontrare, corrispondere, allinearsi. È alla luce di tali criteri che va, quindi, misurata la corretta applicazione delle regole tecniche delle scienze umane ai casi concreti, operando, una verifica congiunta di tali criteri che, del resto, sono “tra loro strettamente connessi e si specificano nel conseguimento di un punto di equilibrio identificabile nella corretta funzionalità dell'esercizio del potere di vincolo: perciò il potere che si manifesta con l'atto amministrativo deve essere esercitato in modo che sia effettivamente congruo e rapportato allo scopo legale per cui è previsto” (Cons. Stato, sez. VI, 27 luglio 2015, n. 3669). Quanto esposto trova conferma nella disamina della giurisprudenza amministrativa. Congruenza ed adeguatezza consentono, infatti, di verificare, in primis, che la valutazione abbia effettiva aderenza al reale, non potendosi ritenere legittimamente esercitato un uso su basi tecniche del potere ove il dato del reale sia tale da escludere l’integrarsi delle stesse ragioni per cui il potere è conferito (cfr.: Cons. Stato, sez. VI, 29 dicembre 2010, n. 9578, in materia di beni paesaggistici; Cons. Stato, sez. VI, 10 febbraio 2015, n. 717, in materia di paesaggio agrario). In secondo luogo, la congruenza consente di verificare l’attendibilità dei criteri tecnici assunti e applicati e, al contempo, di rilevare l’irragionevolezza che potrebbe affondare nella sproporzione tra l’uso concreto della discrezionalità e il dato del reale che si intende preservare. Inoltre, la proporzionalità esprime prioritariamente la congruenza della misura rispetto alla cosa da proteggere, risultando evidente come indebite estensioni della misura dilatino l’oggetto diluendo indebitamente il valore che gli è proprio. Come, infatti, affermato dalla giurisprudenza amministrativa, se l’applicazione naturale dalla proporzionalità si ha nel caso in cui “l’azione amministrativa coinvolga interessi diversi” (Cons. Stato, sez. VI, 26 febbraio 2015, n. 964), il principio di proporzionalità non è, comunque, riservato a quell’ambito, applicando, come notato in dottrina, “alla concreta allocazione del risultato del giudizio tecnico lungo la “monorotaia” dell'unico interesse, vale a dire dell'identificazione tecnica del corretto mezzo relazionato al fine”.
Riferimenti Normativi: