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Lavoro

27 | 06 | 2024

I limiti alla possibilità di registrare conversazioni con i colleghi di lavoro a loro insaputa

Valerio de Gioia

Con sentenza n. 17715 del 27 giugno 2024, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha affermato che, nell'ambito dei rapporti di lavoro, la registrazione di conversazioni tra un dipendente e i suoi colleghi presenti, all'insaputa dei conversanti, configura una grave violazione del diritto alla riservatezza che giustifica il licenziamento intimato (cfr. Cass. civ. 2 novembre 2021, n. 31204), a meno che la registrazione occulta dei dialoghi non si sia resa necessaria per difendere un diritto in giudizio, a prescindere dalla esatta coincidenza soggettiva tra i conversanti e le parti processuali e purché l'utilizzazione di tale registrazione avvenga solo in funzione del perseguimento di tale finalità e per il periodo di tempo strettamente occorrente ed ancora (v. Cass. civ. 10 maggio 2018, n. 11322) che l'utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio.

Allora, sebbene una registrazione di conversazioni tra un dipendente e i suoi colleghi presenti, all'insaputa dei conversanti, non sia in assoluto abusiva e illegittima, ben potendo rientrare nell'ambito della protezione fornita dall'art. 54-bis D.L.vo 30 marzo 2001, n. 165 (cd. "whistleblowing"), affinché ciò avvenga occorre una necessità difensiva, nel senso che il dato raccolto di nascosto sia ad esempio pertinente ad una difesa incentrata su un intento di rappresaglia per effetto della segnalazione, da sostenere nel processo ed il mezzo utilizzato non ecceda l'esercizio di tale diritto di difesa.

La scriminate di cui all'art. 54-bis cit. non può essere estesa fino a ricomprendere l'ipotesi del lavoratore che effettui di propria iniziativa indagini e violi la legge per raccogliere prove di illeciti nell'ambiente di lavoro, operando la stessa solo nei confronti di chi segnala notizie di un'attività illecita senza che sia ipotizzabile una tacita autorizzazione a improprie e illecite azioni di indagine.

L’istituto in esame, che presenta analogie con altre figure di ambito internazionale (da cui deriva anche il termine whistleblowing), si conforma strutturalmente all'art. 361 c.p. ma se ne distingue in riferimento ai presupposti ed all'ambito di operatività, nella doppia declinazione della tutela del rapporto di lavoro e del potenziamento delle misure di prevenzione e contrasto della corruzione.

La segnalazione in esame risponde, difatti, ad una duplice ratio, consistente da un lato nel delineare un particolare status giuslavoristico in favore del soggetto che segnala illeciti e, dall'altro, nel favorire l'emersione, dall'interno delle organizzazioni pubbliche, di fatti illeciti, promuovendo forme più incisive di contrasto alla corruzione.

In riferimento al primo profilo, l'ultima parte del comma 1 dell'art. 54-bis prevede che il dipendente virtuoso non possa essere sanzionato, licenziato o sottoposto a misure discriminatorie, dirette o indirette, aventi effetti sulle condizioni di lavoro, per motivi collegati alla segnalazione effettuata, che deve avere ad oggetto una condotta illecita, non necessariamente penalmente rilevante. Quanto ai destinatari della comunicazione, la stessa può essere rivolta all'autorità giudiziaria ordinaria, alla magistratura contabile e al superiore gerarchico del segnalatore.

In riferimento all'oggetto, la formula riferita al contesto di acquisizione della notizia ("di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro") esprime che il fatto oggetto di segnalazione possa riguardare - a fini di tutela del dipendente - solo informazioni acquisite nell'ambiente lavorativo. Alle condizioni date, i commi 2 e 4 dell'art. 54-bis prevedono un articolato sistema di protezione dell'anonimato del segnalante, in una prospettiva palesemente incentivante, escludendo la materia dalla normativa in tema di accesso civico e dall'ambito di applicazione della legge n. 241/1990 e limitando la rivelazione dell'identità ai soli casi di indispensabilità per la difesa dell'incolpato.

Emerge, all'evidenza, come la normativa citata si limiti a scongiurare conseguenze sfavorevoli, limitatamente al rapporto di impiego, per il segnalante che acquisisca, nel contesto lavorativo, notizia di un'attività illecita, mentre non fonda alcun obbligo di attiva acquisizione di informazioni, autorizzando improprie attività investigative, in violazione dei limiti posti dalla legge (cfr. Cass. pen., sez. V, 21 maggio 2018, n. 35792).

La normativa di tutela del dipendente che segnali illeciti altrui (c.d. whistleblowing) salvaguarda il medesimo dalle sanzioni che potrebbero conseguire a suo carico secondo le norme disciplinari o da reazioni ritorsive dirette ed indirette conseguenti alla sua denuncia, ma non istituisce un esimente per gli autonomi illeciti che egli, da solo o in concorso con altri responsabili, abbia commesso, potendosi al più valutare il ravvedimento operoso o la collaborazione al fine di consentire gli opportuni accertamenti nel contesto dell'apprezzamento, sotto il profilo soggettivo, della proporzionalità della sanzione da irrogarsi nei confronti del medesimo.

Riferimenti Normativi:

  • Art. 54 bis, d.l.vo 30 marzo 2001, n. 165