Diritto penale
Delitti
28 | 05 | 2024
L’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro
Giulia Faillaci
Con sentenza n. 21021 del 6 marzo-28 maggio 2024, la prima sezione
penale della Corte di Cassazione è intervenuta in tema di intermediazione
illecita e sfruttamento del lavoro.
L'art. 603-bis, comma 1, n. 2), c.p., nel testo modificato dalla L. 29
ottobre 2016, n. 199, incrimina chiunque utilizza, assume o impiega manodopera,
anche dietro attività di intermediazione altrui, sottoponendo i lavoratori a
condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. Al fine
di realizzare la più ampia tutela del bene giuridico preso in considerazione,
la disposizione prevede che il reato si perfezioni attraverso modalità
alternative e/o concorrenti, che si concentrano sull'uso datoriale di manodopera,
anche in via di fatto e indipendentemente dalla previa formale stipulazione di
un contratto di lavoro, nelle condizioni in fattispecie evocate. il datore di
lavoro risponde del reato, a prescindere da un pregresso intervento di
intermediazione ad opera del c.d. caporale, se sfrutta uno o più lavoratori
approfittando del loro stato di bisogno. Gli indici di sfruttamento sono quelli
indicati nel terzo comma dell'art. 603-bis, cit., e includono la palese
incongruenza dei trattamenti retributivi, nonché la violazione delle norme in
tema di tempi di lavoro e di sicurezza e igiene dei relativi luoghi (che sono
gli indici specificamente contestati nei capi d'imputazione odierni). Le
violazioni retributive e di orario, costituenti indici di sfruttamento, debbono
essere reiterate e la reiterazione deve intendersi riferita al singolo
lavoratore, e non alla sommatoria di comportamenti episodici in danno di
lavoratori diversi, in quanto oggetto di tutela non è un bene collettivo, ma la
dignità della singola persona (Cass. pen., sez. IV, 11 novembre 2021, n. 45615).
Lo sfruttamento, così inteso, importa la verificazione un minimum quantitativo
di comportamenti e ne sottende la ripetizione, in misura sufficiente ad
offendere il bene giuridico protetto. Partendo da tale rilievo, lo sfruttamento
si presta ad essere inquadrato come condotta abituale e il reato in esame ad
essere classificato in tale categoria dogmatica (Cass. pen., sez. IV, 12 maggio
2021, n. 25756, fa proprio un tale orientamento). Secondo altra impostazione,
che fa implicitamente leva sulla continuità temporale della condotta e sull'ingravescenza
delle sue conseguenze, si tratterebbe di un reato istantaneo con effetti
permanenti (in termini, Cass. pen., sez. IV, 10 marzo 2022, n. 24388), il cui
perfezionamento si avrebbe già con l'ingaggio del lavoratore nella prospettiva
del suo sfruttamento, mentre la lesione dell'interesse protetto permarrebbe per
l'intero tempo di sua durata, correlata all'approfittamento dello stato di
bisogno.
Non è in questa sede necessario prendere posizione
sul punto (né, tanto meno, sollecitare l'intervento delle Sezioni Unite),
perché l'esatta definizione della natura giuridica del reato di sfruttamento di
manodopera, per le considerazioni ulteriori che si andranno a svolgere, non
condiziona la soluzione del presente conflitto. Quel che occorre sin d'ora
rimarcare, in vista di tale soluzione, è piuttosto che - si accolga l'uno o
l'altro inquadramento - la consumazione del reato avviene nel luogo di
effettiva occupazione del lavoratore in condizioni di sfruttamento, preceduta
(o meno) da formale assunzione, e non nel diverso luogo in cui quest'ultima sia
stata eventualmente stipulata, e neppure nel diverso luogo ove il rapporto di
lavoro sia eventualmente gestito dal lato amministrativo e burocratico. È l'occupazione
del lavoratore, realizzata in guisa da sfruttarlo, che concreta la situazione
materiale, offensiva del bene giuridico tutelato. L'adibizione in fatto del
lavoratore alle mansioni, contrassegnata da sfruttamento, reso a sua volta
possibile dall'approfittamento dello stato di bisogno, infrange il divieto
penale e definisce al tempo stesso la condotta incriminata, conformemente alla
ratio della proibizione, sulla base di un criterio di effettività. Se il
lavoratore sfruttato opera alle dipendenze di un'impresa aggiudicataria di
appalto, il luogo di esecuzione di esso rappresenterà il luogo di consumazione
del reato, a prescindere da dove insista la sede datoriale, legale od operativa
che sia. Il reato si perfeziona a carico di chi impegna «lavoratori»,
sottoponendoli a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di
bisogno, ed è dunque la struttura stessa della fattispecie, ad oggetto
materiale plurimo, che consente di affermare che condotte di tal genere, se
contestuali dal lato spaziale e temporale, continuative e connotate da comune direzione
finalistica, integrano un solo reato, qualunque sia il numero degli occupati
coinvolti. Tale numero rileverà, in tal caso, solo ai fini della dimensione
offensiva del fatto, essendo la pena pecuniaria ad esso commisurata ed essendo
il numero di lavoratori reclutati superiore a tre configurato come speciale
circostanza aggravante (art. 603-bis, comma 4, n. 1, c.p.). Il concorso
materiale di reati, omogeneo, eventualmente riconducibile ad unità di disegno
criminoso, sarà invece ravvisabile, mancando tali requisiti, ossia in caso di
apprezzabile sfasatura temporale, spaziale o teleologica delle condotte in
esame. La diversità dei luoghi in cui le vittime siano sfruttate, unita alla
diversa identità di queste ultime, esclude del resto l'unicità ontologica del
reato di sfruttamento, pur quando gli atti corrispondenti siano commessi senza
soluzione di continuità (v., in tema di prostituzione, Cass. pen., sez. III, 7
luglio 2011, n. 41404).
Riferimenti Normativi: