Diritto amministrativo
Processo amministrativo
22 | 05 | 2024
L’omesso deposito di copia della sentenza impugnata, congiuntamente o meno all’atto di impugnazione, non determina in nessun caso l’inammissibilità tout court dell’impugnazione medesima
Giovanna Suriano
Con sentenza n. 4542 del 22 maggio 2024, la sesta sezione del Consiglio
di Stato ha esaminato la portata applicativa dell’art. 94 c.p.a. secondo cui,
«Nei giudizi di appello, di revocazione e di opposizione di terzo il ricorso
deve essere depositato nella segreteria del giudice adito, a pena di decadenza,
entro trenta giorni dall'ultima notificazione ai sensi dell'articolo 45,
unitamente ad una copia della sentenza impugnata e alla prova delle eseguite
notificazioni». La relazione di accompagnamento al Codice del processo
amministrativo ha evidenziato come detta previsione abbia «innovativamente»
disposto «che all’impugnante è sufficiente produrre una copia anche non
autentica della sentenza impugnata, in considerazione dell’estrema facilità di
reperirne il testo sul sito ufficiale, il che fa presumere con ragionevole
certezza che il testo prodotto sia conforme a quello reale».
Ora, il dato letterale dell’attuale previsione, ossia l’art. 94 c.p.a., si presta a più letture: I) una prima lettura della disposizione secondo la quale la comminatoria di decadenza riguarderebbe non solo il tardivo deposito dell’atto di impugnazione ma anche l’omesso o tardivo deposito di copia della sentenza impugnata; II) una seconda lettura che limiterebbe tale decadenza al tardivo o mancato deposito del solo atto di impugnazione e non anche della copia della sentenza impugnata. Gli indirizzi interpretativi della giurisprudenza, sul tema del deposito di copia della sentenza, sviluppatisi nel corso della vigenza del codice del processo amministrativo non sono univoci. Secondo un primo complessivo indirizzo va dichiarato inammissibile il gravame per il mancato rispetto del termine decadenziale ex art 94 c.p.a.: la sentenza impugnata deve essere depositata, anche separatamente dall’atto di impugnazione, nel termine decadenziale di 30 giorni dall’ultima notificazione, a pena di inammissibilità dell’appello, ferma restando la surrogabilità dell’onere del ricorrente da altra parte costituita. Si è, secondo tale indirizzo, in presenza della violazione di una disposizione di ordine pubblico processuale, non derogabile dalle parti, che impone espressamente, a pena di decadenza, il deposito – entro il termine di trenta giorni dall’ultima notificazione del ricorso – non soltanto dell’appello, ma anche della sentenza impugnata (Cons. Stato, sez. VI, n. 4520 del 2022 e n. 8779 del 2022; Cons. giust. amm. sic., sez. giur., n. 957 del 2022). A tale impostazione va ascritta anche la giurisprudenza secondo cui l’onere di deposito della sentenza appellata costituisce espressione di un elementare (quanto gratuito, non essendo la copia della sentenza appellata soggetta a oneri fiscali) dovere di collaborazione della parte con il giudice di appello (e dell’impugnazione in generale), affinché quest’ultimo, attraverso la consultazione del fascicolo digitale di appello, possa immediatamente e velocemente individuare, nella moltitudine di atti processuali digitalizzati, la sentenza impugnata, senza bisogno di accedere al fascicolo di primo grado» (Cons. giust. amm. sic., sez. giur., n. 965 del 2022). In relazione al nuovo assetto recato dal processo amministrativo telematico, la previsione recata dall’art. 94 c. 1 c.p.a. continua ad essere comunque vigente «e impone un adempimento che non può ritenersi caduto in desuetudine per effetto del PAT, posto che la previsione costituisce norma imperativa e inderogabile» (Cons. giust. amm. sic., sez. giur., nn. 962 e 958 del 2022). Un secondo indirizzo ritiene che «soltanto laddove sia carente in senso assoluto la produzione della sentenza gravata l’impugnazione è improcedibile» (Cons. Stato, sez. IV, n. 1455 del 2014, più recentemente, n. 4488 del 2020). In tal senso è inammissibile il gravame nel caso di mancata produzione in grado di appello di alcuna copia (anche semplice) della sentenza impugnata ma – di contro – è ammessa la possibilità di deposito della stessa nei termini ex art. 73 c.p.a. (Cons. Stato, sez. VI, n. 7133 del 2020); potendosi, ancora, ben configurare l’errato deposito di una ordinanza istruttoria in luogo della sentenza gravata quale causa di un emendabile «errore materiale» (Cons. giust. amm. sic., sez. giur., n. 843 del 2021; contra, Cons. giust. amm. sic., sez. giur., nn. 960 e 962 del 2022). Una terza lettura dell’art. 94 c.p.a. è volta a ritenere che «La sanzione della decadenza prevista da tale disposizione sembra pertanto da riferire – sia per ragioni testuali, che in ragione di un’esegesi necessariamente adeguatrice ed evolutiva – al mancato (tempestivo) deposito del ricorso, e non anche di “copia della sentenza impugnata e alla prova delle eseguite notificazioni (adempimenti indicati in una separata e successiva parte della disposizione)» (Cons. Stato, sez. III, n. 2403 del 2023). «L’interpretazione della disposizione di cui all’art. 94 c.p.a. deve anzitutto tenere conto del fatto che […] in caso di omesso deposito della sentenza impugnata per il giudice di appello è agevole procedere “all’acquisizione di copia della sentenza gravata dal sistema informatico della Giustizia amministrativa, che consente di reperire la pronuncia di primo grado, agevolmente e con certezza circa la sua autenticità, senza onerare a tal fine parte appellante e senza differimenti della decisione. Sicché anche alla luce di tale obiettivo dato non appare praticabile una lettura dell’art. 94 cod. proc. amm. implicante conseguenze irragionevoli e sproporzionate – rispetto all’adempimento omesso – sull’esercizio del diritto di difesa» (Cons. Stato, sez. III, n. 2403 del 2023, cit.). Così ricostruito l’assetto interpretativo dell’art. 94 c.p.a., richiamando la nota distinzione tra «disposizione» (intesa come legge o atto avente forza di legge), e «norma» (ossia il precetto o regula iuris) veicolata dalla interpretazione della disposizione, una norma qui volta ad affermare una comminatoria di decadenza per effetto dell’omesso o tardivo deposito della sentenza impugnata ex art. 94 c.p.a. non può ritenersi sincronizzabile con diversi canoni costituzionali, a cominciare con quello di ragionevolezza e di garanzia del diritto di azione e, dunque, si rende necessaria una lettura ‘adeguatrice’. Deve essere premesso, come si è accennato, che il predetto art. 94 c.p.a., così come formulato, non consente, già sul piano letterale, di affermare in modo netto che la comminatoria di decadenza per omesso o tardivo deposito di copia della sentenza impugnata rispetto al termine di decadenza dia necessariamente luogo alla inammissibilità dell’appello (o di altro mezzo di impugnazione): la previsione ben si presta ad un significato secondo cui la predetta comminatoria di decadenza sia correlata, su un piano meramente strutturale del sintagma, unicamente al mancato rispetto del termine per il deposito dell’atto di impugnazione. Ed è proprio tale assetto letterale, non univoco, della disposizione che ha dato luogo a letture divergenti della giurisprudenza tali da impedire il formarsi di un ‘diritto vivente’ – inteso quale «reiterazione e conseguente stabilità dell’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità» (Corte cost. n. 38 del 2024) – imponendosi, qui, una interpretazione conforme ai parametri costituzionali di riferimento (art. 3, 24, 103, 113, 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU). D’altronde, sussiste, il «dovere […] di interpretare la normativa in senso conforme alla Costituzione (ogni volta che ciò sia permesso dalla lettera della legge e dal contesto logico-normativo entro cui essa si colloca)» (Corte cost. n. 36 del 2016) e ciò in ragione «tanto dell'assioma per il quale l'ordinamento normativo dev’esser postulato, in sede interpretativa e applicativa, come una totalità unitaria, quanto del principio di conservazione dei valori giuridici, il quale induce a presumere che una disposizione non sia dichiarata illegittima fintantoché sia possibile enucleare da essa almeno un significato conforme alle leggi» (Corte cost. n. 559 del 1988). Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il legislatore dispone di un’ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, incontrando il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute, che viene superato qualora emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire in giudizio (ex multis, sentenze n. 148 del 2021, n. 102 del 2021, n. 253, n. 95, n. 80, n. 79 del 2020 e n. 271 del 2019). Con particolare riferimento all’art. 24 Cost., la Corte ha, altresì, specificato che esso non comporta che il cittadino debba conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti, purché non vengano imposti oneri o prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale (tra le tante, sentenze n. 271 del 2019, n. 199 del 2017, n. 121 e n. 44 del 2016). Se è vero che «le forme degli atti processuali non sono “fine a se stesse”, ma sono funzionali alla migliore qualità della decisione di merito (Corte cost. 77 del 2007), essendo deputate al conseguimento di un determinato scopo, coincidente con la funzione che il singolo atto è destinato ad assolvere nell’ambito del processo» (Corte cost. n. 148 del 2021, cit.), una lettura volta a sancire la comminatoria di decadenza – con conseguente inammissibilità dell’appello (o di altra impugnazione) – discendente (nell’ipotesi interpretativa privilegiata da parte della giurisprudenza sopra citata) dall’omesso deposito di copia della sentenza nel termine previsto dall’art. 94 c.p.a., si rivela non proporzionata agli effetti che ne derivano, tanto più che essa non è posta a presidio di alcuno specifico interesse che non sia già tutelato dalla previsione del termine di decadenza per il deposito dell’atto di impugnazione. - Ora, quanto alla disciplina in argomento, l’estensione del termine decadenziale al deposito di copia della sentenza non risulta sorretta da adeguate e concrete giustificazioni in punto di soddisfacimento dell’interesse delle parti (né di alcun interesse pubblico), non foss’altro perché anche in forza delle attuali regole sul processo amministrativo telematico, il giudice dell’impugnazione (come anche l’avvocato della controparte) può agevolmente reperire, in seno al fascicolo di primo grado (al quale ha accesso), copia digitale della sentenza impugnata. D’altronde, ancora, una volta chiarito che la finalità della previsione è di consentire la conoscenza della pronuncia impugnata non già alle controparti ma direttamente al giudice (così, Cons. Stato, Ad. plen. n. 20 del 1982), questi ne è a conoscenza sia in ragione dell’obbligo del segretario del giudice di appello di «richiede[re] la trasmissione del fascicolo d’ufficio al segretario del giudice di primo grado» (art. 6, comma 2, all. II, c.p.a.), sia in ragione dell’obbligo di trasmissione del fascicolo da parte dei Tribunali amministrativi regionali «tramite SIGA, mediante accesso diretto al fascicolo di primo grado da parte dei soggetti abilitati» (art. 11, all. 2 decreto Pres. Cons. Stato 28 luglio 2021, recante «Regole tecniche-operative del processo amministrativo telematico», emanato ai sensi dell’art. 13, comma 1, c.p.a.).
L’art. 94 c.p.a. va, dunque, reso oggetto di una lettura che sia
rispettosa, per un verso, del suo dato letterale laddove impone, comunque e
chiaramente, l’adempimento a carico della parte ricorrente del deposito di
copia della sentenza impugnata e, per altro verso, del dato sistematico, in una
prospettiva però compatibile con i principi di ragionevolezza, proporzionalità,
garanzia della tutela e giusto processo. Siffatta prospettiva, non compatibile
con l’ascrivibilità del mancato tempestivo deposito di copia della sentenza
impugnata alle cause di inammissibilità dell’appello (rivelandosi, come detto,
una tale conseguenza sproporzionata rispetto all’obiettivo e non suffragata da
effettive ragioni di tutela o di corretta instaurazione del giudizio), si
rivela però conforme ad una soluzione interpretativa volta a ritenere,
diversamente la mancata produzione di copia della sentenza quale causa
impeditiva della spedizione della causa in decisione (che l’Adunanza plenaria
del 1982, definisce «improcedibilità»). A ben vedere, tale assetto, oltre a
esser stato richiamato dalla decisione Cons. Stato Ad. plen. n. 20 del 1982, è
stato seguito dal c.p.a. – mutatis mutandis – in relazione al rapporto fissato
nell’art. 55 tra l’onere di presentare la domanda di fissazione udienza (DFU) e
la decisione dell’istanza cautelare (proprio in termini d’«improcedibilità» di
quest’ultima).
In tal senso, dunque, il Consiglio di Stato ha conclusivamente affermato che: l’omesso deposito di copia della sentenza impugnata, congiuntamente o meno all’atto di impugnazione, non determina in nessun caso l’inammissibilità tout court dell’impugnazione medesima; l’impugnazione è improcedibile, nel senso che non può essere decisa nel merito, finché una delle parti in causa non abbia adempiuto all’obbligo ex art. 94 c.p.a. mediante deposito di copia della sentenza impugnata.
Riferimenti Normativi: